di Riccardo Giorgio Frega
Ricordo distintamente la prima volta che ho sentito pronunciare le parole green rush, la corsa all’oro verde: era il finire di una torrida estate e all’epoca risiedevo e lavoravo ad Ibiza. Nel cuore dei miei trent’anni, con alle spalle molti viaggi ed esperienze professionali in località spesso diverse tra loro, attendevo la conclusione della stagione turistica sull’isola delle Baleari per decidere dove avrei trascorso i mesi autunnali.
Fu un amico di Denver, Colorado, giunto a farci visita da qualche giorno, a dirmi che “avrei dovuto andare sulla West Coast a vedere con i miei occhi la green rush” e che “conosceva un sacco di coltivatori ed imprenditori da potermi presentare laggiù”. Un paio di settimane più tardi, colta al volo l’opportunità, sarei atterrato nel piccolo aeroporto di Medford, all’estremo sud dell’Oregon, col mio zaino in spalla ed una manciata di numeri di telefono in tasca, pronto ad incontrare le persone che, per tutti gli anni seguenti, mi avrebbero consentito di trascorrere lunghi mesi negli States, esplorandone tutta la costa orientale, dall’isola Vittoria, in Canada, fino al confine meridionale col Messico, ed offrendomi una prospettiva privilegiata su quella rivoluzione sociale, economica e politica che è stata la legalizzazione della marijuana negli Stati dell’ovest.
La relazione tra l’Oregon e le droghe è antica e ben documentata, ma la sua origine è da ricercarsi più a sud, nelle assolate valli della California centrale. Terminata l’ubriacatura della summer of love, già dai primissimi anni 70, le comunità hippies più radicali cominciarono a confliggere con la cultura turbo-capitalista che avrebbe segnato il destino di quella regione nei decenni seguenti, iniziando un progressivo esodo e ristabilendosi nelle vaste regioni boschive a nord di San Francisco. Qui il clima, particolarmente adatto alla coltura della cannabis grazie ad una pronunciata escursione termica tra il giorno e la notte, le caratteristiche orografiche del territorio, montuoso e ricco di corsi d’acqua, ed una scarsissima densità di popolazione, favorirono fin da subito la nascita di numerose piantagioni Illegali che in pochi anni valsero alla zona l’appellativo di Triangolo di Smeraldo, per la qualità e la quantità di marijuana prodotta.
È proprio l’Oregon a compiere il primo passo concreto per regolamentare la cannabis in America. Nel 1973 ne depenalizza il possesso per quantità inferiori all’oncia di infiorescenza (poco più di 28 grammi), ma bisognerà attendere fino al 1998 perché venga introdotto il famoso Oregon Medical Marijuana Program (OMMP). La normativa, un unicum assoluto nel suo genere, consente non solo ai pazienti a cui viene prescritta di coltivare marijuana tra le proprie mura domestiche, ma anche di incaricare ufficialmente un soggetto terzo alla produzione per proprio conto. Il successo dell’iniziativa è istantaneo: nel giro di pochi mesi decine di migliaia di pazienti si iscrivono al programma designando come produttori centinaia di coltivatori. Buona parte della grande produzione di cannabis locale, prima relegata al solo mercato nero e nascosta nelle profondità delle sconfinate foreste di conifere, esce allo scoperto, generando un gettito senza precedenti nella storia dello Stato americano ed innescando quell’escalation di eventi che porteranno, anni più tardi, alla piena legalizzazione della marijuana, medica e ricreativa, per tutti i cittadini
maggiorenni (Measure 91, entrata in vigore il primo luglio 2015).
C’è un altro motivo per il quale l’epopea della legalizzazione in quest’area desta interesse agli occhi di un osservatore Italiano: l’Oregon è uno Stato da metà classifica, il più povero della costa orientale, una regione prevalentemente agricola, decisamente sottopopolata e penalizzata da decenni di economia stagnante.
Vi viene in mente qualcosa? Impossibile non pensare alle nostre regioni centro-meridionali. Con l’unica eccezione dell’area settentrionale di Portland, grande centro urbano strategicamente posizionato alla confluenza tra i grandi fiumi Columbia e Willamette, il resto del Paese non può vantare nessuna zona produttiva di rilievo. Ricchissimo di foreste, l’industria del legno è l’unica a poter garantire un minimo di occupazione. L’Oregon ha un territorio grande circa come l’Italia priva delle isole ed una popolazione che supera appena i 4 milioni di abitanti (meno della sola provincia di Roma!). Sono l’agricoltura e l’allevamento la principale fonte di sostentamento per la popolazione.
Occorre tenerlo ben presente quando lo si visita perché solo così si può davvero apprezzare l’effetto deflagrante che la legalizzazione ha avuto sull’economia locale.
In larghe zone del Paese è impossibile non notare come l’industria della marijuana sia onnipresente. E non si pensi alle sole farm o ai soli dispensari, ma ad ogni sorta di attività legata alla cannabis.
Si incontrano ovunque negozi di articoli per l’assunzione (non solo fumo, ma soprattutto vaporizzazione e prodotti commestibili), negozi di accessori ed utensili per la coltivazione e la lavorazione del prodotto, laboratori per le analisi (ogni infiorescenza dev’essere certificata da un laboratorio convenzionato prima di essere immessa sul mercato), uffici per la gestione delle pratiche necessarie alla produzione, assicurazioni specifiche per l’agricoltore ed il lavoratore, industrie per la produzione di tecnologia mirata all’estrazione del cannabinoide e ogni sorta di servizi al consumatore. Vi è persino una nascente industria turistica, con appassionati antiproibizionisti che affollano entusiasti le poche strutture ricettive delle fertili vallate meridionali.
Ma ciò che colpisce ancora di più è l’incredibile indotto in termini di forza lavoro che questo settore è in grado di generare. Durante il periodo del raccolto (da settembre a gennaio a seconda della fascia climatica) sono decine di migliaia i lavoratori stagionali che affollano i siti produttivi della costa orientale.
Ho visto paesi triplicare di numero durante i mesi autunnali. E non ci si immagini poveri immigrati messicani sottopagati e costretti a lavorare per un tozzo di pane, bensì manodopera competente e qualificata, proveniente da tutti gli Stati della Federazione, spesso pagata tra i 15$ e i 20$ l’ora per volgere un lavoro decisamente poco usurante fisicamente.
Lavorare in una cannabis farm è infatti molto più simile all’essere impiegati in un roseto che a fare il manovale in un campo di pomodori.
Il tema della legalizzazione in Italia è spesso trattato in maniera poco esaustiva. È giusto che si dibatta delle proprietà curative e degli effetti psicotropi della cannabis, è giusto che si faccia notare come le politiche proibizioniste in materia finiscano per favorire economicamente le mafie, ma occorre anche sottolineare che legalizzare la marijuana è prima di tutto un’opportunità per la nostra gente. Nei lunghi periodi trascorsi in America ho visto e conosciuto famiglie rurali capaci di affrancarsi dalla povertà. Genitori finalmente in grado di pagare gli studi ai propri figli. Figli un tempo condannati ad emigrare in altri Stati americani per trovare un lavoro, decidere di restare per avviare una propria piccola attività di successo. E tutto grazie all’oro verde.
Di questo vorrei parlarvi in queste mie cronache dalla green rush.