Del Prof. Marco Rossi , docente di Economia politica allUniversità la Sapienza di Roma
Premetto che la proibizione, da un punto di vista fiscale, equivale a un’esenzione da ogni tipo di imposizione, che solitamente rappresenta una politica adottata per beni meritori e necessari. La conseguenza di questa politica è quindi un paradosso, poiché il mercato degli stupefacenti, che si vorrebbe punire e proibire, gode invece di un trattamento fiscale privilegiato. I profitti che in questo modo si generano, possono essere usati dalle organizzazioni criminali per corrompere il sistema, sia al fine di inserirsi nel tessuto economico con imprese che fanno concorrenza sleale nel mercato, sia come fonte di risorse liquide utilizzate nelle varie forme di corruzione (realizzata principalmente attraverso denaro contante); noi consentiamo in questo modo alle mafie di ottenere profitti, esentasse e in forma liquida.
Un’altra premessa generale è che noi, proibendo il commercio di un bene così diffuso, incentiviamo una sorta di percezione di illegalità, ma come sappiamo l’attività economica si basa sul rispetto delle regole: di conseguenza, nel momento in cui una regola è così largamente e diffusamente violata, tanto da essere il suo commercio visibile per le strade e per le piazze italiane, si crea un allarme sociale che riduce il benessere e crea un clima di incertezza. Il senso della legge e della legalità viene meno.
È anche importante ricordare che proibire un bene o un servizio largamente diffuso significa anche comminare molte sanzioni. Su questo punto vorrei far notare che, nonostante la depenalizzazione del consumo e del piccolo spaccio, dal punto di vista economico la sanzione amministrativa è più gravosa di quella penale. Per un imprenditore autonomo con partita iva è preferibile infatti trascorrere 15 giorni in galera piuttosto che restare 6 mesi senza patente; per questo motivo e in considerazione del fatto che in Italia abbiamo superato il milione di sanzioni amministrative, si è creato non solo un grande danno alla capacità produttiva dei lavoratori ma anche al benessere generale.
Ma quanto ci costa proibire la cannabis? È difficile valutare precisamente il costo economico, ma possiamo dire che le stime variano in un intervallo compreso tra i 500 milioni e un miliardo di Euro ogni anno, un calcolo in cui dobbiamo ricomprendere le spese per la polizia, la magistratura e le carceri. Infatti, cosi come stiamo facendo attualmente, cioè concentrando gli sforzi di polizia e magistratura sulla lotta alla cannabis, distogliamo un possibile utilizzo di queste energie per la lotta alla criminalità tout court.
Per quanto attiene invece ai modelli di legalizzazione e ai loro effetti economici, il campo di variazione delle ipotesi è compreso tra due scenari polari.
Nel primo la cannabis viene legalizzata e la sua produzione, manifattura e distribuzione è riservata al monopolio di stato: in poche parole con questo modello si estende il regime fiscale e normativo, applicato sui tabacchi lavorati, anche alla cannabis con una sua conseguente distribuzione nelle tabaccherie. In questo modo l’impatto occupazionale sarebbe modesto ma è possibile che lo stato ottenga dalla tassa su questo bene un indotto di circa 2-3 miliardi all’anno. Questa è l’ipotesi più restrittiva ma anche la più semplice da attuare. A questa implicazione va aggiunta sostituzione delle importazioni di cannabis dall’estero con la produzione nazionale, il cui valore è stimabile in circa 1 miliardo di euro all’anno. Nella sostituzione delle importazione col la produzione nazionale troverebbero impiego di circa 50/60 mila addetti stagionali, con un indotto aumento del reddito nazionale italiano, stimabile in circa 4miliardi euro.
Il secondo scenario che si pone è invece un tipo di legalizzazione che segue il modello olandese degli anni80. Con questo si ha una piena commercializzazione del prodotto, la sua distribuzione tramite una rete di coffee shops e la possibilità di effettuare pubblicità e politiche commerciali aggressive. Esistono le condizioni perché ciò avvenga in Italia: infatti non solo questa primeggia da sempre in Europa nel consumo di cannabis, dimostrando l’esistenza di una domanda interna già pronta a sostenere il mercato, ma inoltre la domanda estera potrebbe essere dirottata in Italia attraverso il c.d. turismo dello spinello. In questo modo si potrebbero impiegare, in una rete di coffee shops come quella olandese, circa 300 mila addetti annuali (non stagionali), con un indotto fiscale raddoppiato capace di arrivare fino a 6 miliardi di Euro.
Come ultima considerazione, bisogna dire che la proibizione della cannabis fa sì che il mercato italiano debba approvvigionarsi di questa sostanza in larga parte dall’estero: è possibile stimare in più di un miliardo di Euro il valore della cannabis contrabbandata ogni anno principalmente dall’Albania e dal Marocco; se questa, viceversa, fosse coltivata, prodotta e distribuita in Italia risparmieremmo un miliardo e potremmo impiegare circa 60 mila addetti stagionali nella coltivazione con un indotto stimabile intorno ai 4 miliardi di Euro.
Qui è però necessario fare un distinguo importante, relativo all’auto-coltivazione e al mercato sociale, cioè quel meccanismo di scambio attraverso il quale più amici decidono di acquistare la cannabis all’ingrosso, per poi ridistribuirla all’interno del proprio gruppo. Contando che quasi un terzo dei consumatori italiani di cannabis ha più di trent’anni e che sono circa 100 mila le persone che coltivano la cannabis per uso personale, si ha un dato che si pone in rivalità con gli aspetti fiscali visti in precedenza. Se infatti la legalizzazione dovesse prevedere la possibilità di coltivare liberamente la cannabis in forma domestica, le stime andrebbero quasi dimezzate.