CANNABIS LIGHT: Un pasticcio all’italiana

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Di Giacomo Bulleri

La legge n. 242/2016 persegue lo scopo precipuo di promuovere, incentivare e tutelare la filiera agro-industriale della cannabis sativa, ossia della cd. canapa industriale proveniente da varietà certificate con tenore di THC inferiore allo 0,2%, la cui coltivazione non rientrava nella normativa sugli stupefacenti di cui al DPR 309/1990.

Sin dall’entrata in vigore di tale legge ci si è interrogati sulla portata e sull’estensione del dettato normativo con particolare riferimento al concetto di filiera ed ai rapporti con la normativa sugli stupefacenti. Se la legge promuove la filiera della canapa (che è una pianta) e la canapa fino allo 0,2% non è una droga, va da sé che anche il prodotto delle coltivazioni
non possa essere una droga
.

In questo contesto è esploso il fenomeno della cd. cannabis light ossia la vendita di infiorescenze essiccate di canapa industriale per destinazioni non meglio specificate, quali l’uso tecnico o il collezionismo.
Il fenomeno in un anno e mezzo ha avuto una notevole diffusione con la nascita di oltre 1000 nuove aziende agricole e commerciali con un indotto di circa 10000 posti di lavoro ed il proliferare degli ettari coltivati fino agli oltre 5000 ettari attuali.

Con la diffusione del fenomeno cannabis light sono iniziate anche le querelles legali che in un primo momento sembravano propendere per la piena liceità di tali prodotti tanto che nel maggio 2018 il MIPAAFT aveva emanato una circolare con cui aveva ritenuto le infiorescenze
come implicitamente comprese nella legge.

Nonostante ciò i Tribunali che sono stati chiamati a pronunciarsi nei vari casi di sequestro (intensificatasi durante il primo governo Conte), si sono divisi tra favorevoli e contrari fino ad arrivare alla pronuncia delle Sezioni Unite del maggio 2019, la quale ha sancito come la cannabis ed i suoi derivati (fiori, foglie, oli e resine) rientrino sempre nell’ambito della
normativa stupefacenti, salvo che in concreto siano privi di efficacia drogante.

In pratica si sono legittimati i sequestri indiscriminati di canapa rimettendo al singolo giudice la valutazione caso per caso circa l’efficacia drogante. La conseguenza è stata il proliferare di decisioni diverse da caso a caso con buona pace della certezza del diritto. E nuovamente la giurisprudenza si è nuovamente divisa tra chi ha assunto a parametro per la valutazione dell’efficacia drogante lo 0,5% di THC (da oltre 20 anni parametro sancito dalla Cassazione e dalla tossicologia) e chi ha insistito nel sostenere che comunque si tratta di droga valutando l’efficacia drogante in termini quantitativi mg/kg.

In realtà, si è generato il solito paradosso all’italiana. La cannabis light, come tale, non è prevista tra le destinazioni di legge, ma, di fatto, quantomeno nella stragrande maggioranza dei casi, non può essere sanzionata penalmente in quanto priva di efficacia drogante.

Si è creato quindi un corto circuito nel sistema fatto di sequestri, ricorsi, processi ed assoluzioni che hanno finito per far chiudere aziende, perdere occupazione ed entrate per lo Stato, il tutto in nome di timori e pregiudizi che appaiono infondati ed anacronistici.

Basti pensare che la OMS ha da tempo chiesto all’ONU di declassare la cannabis in toto tra gli stupefacenti ed ha raccomandato di escludere cannabis e derivati con tenore di THC inferiore allo 0,2% dalla normativa antidroga. In tale direzione i Paesi “civili” si sono già mossi ed – anche prescindendo dai Paesi “liberali” del Nord America dove la legalizzazione della cannabis è una realtà con le società quotate in borsa – per restare all’Europa si possono menzionare i casi di Croazia (che ha escluso
cannabis fino allo 0,2% di THC dalle droghe) e Belgio (che ha incluso cannabis e derivati fino allo 0,2% tra i prodotti per inalazione).

Insomma, un vero pasticcio all’italiana, rilevato e confermato anche dall’Eurispes, che ha finito per danneggiare gravemente l’economia reale generando oltretutto una enorme confusione nel settore canapa anche in comparti industriali che niente hanno a che fare con la “cannabis light” e che risultano gravemente penalizzati e talvolta demonizzati dal pregiudizio.

La soluzione? L’intervento del legislatore, il quale non può continuare a fare lo struzzo, ma deve intervenire per regolamentare il settore con poche e chiare norme, tra l’altro più volte invocate ed annunciate: esplicitare che la legge 242/2016 comprende tutte le parti della pianta e fissare un chiaro limite di THC che differenzi una volta per tutte la canapa industriale
dalla cannabis intesa come sostanza stupefacente.

In realtà si tratta di una questione di diritti civili, (libertà individuale e libera iniziativa economica in primis che dovrebbero essere i pilastri di uno Stato liberale e democratico), oltre che più semplicemente di buon senso.

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