Da Cucchi a Morisi: come cambia il linguaggio se cambiano le persone

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Di Federica Valcauda e Raffaella Stacciarini

“Quando un amico sbaglia e commette un errore che non ti aspetti, e Luca ha fatto male più a se stesso che ad altri, prima ti arrabbi con lui, e di brutto. Ma poi gli allunghi la mano, per aiutarlo a rialzarsi. Amicizia e lealtà per me sono la vita. […] Ti voglio bene amico mio, su di me potrai contare. Sempre.”

Un messaggio pubblico di affetto e solidarietà quello diffuso da Matteo Salvini a sostegno di Luca Morisi, spin doctor e guru della campagna social del leader leghista, balzato agli onori delle cronaca per ben altre vicende. La notizia è ormai nota: social e testate giornalistiche non parlano d’altro.
E noi invece d’altro vorremmo parlare. 

Guardando al passato, c’è una prima grande differenza che salta subito agli occhi: il linguaggio. 

Se è vero che il linguaggio denomina le cose, riflette le categorie di pensiero e, in un certo senso, dà forma alla realtà, allora è vero che la questione Morisi assume, per l’ex-ministro e per certa stampa, forma e sfumature diverse rispetto a precedenti affini. 

A partire dalle parole: sulle maggiori testate Morisi è indagato per “cessione di sostanze stupefacenti”, per Salvini è “un amico che ha fatto più male a se stesso che ad altri”.
Morisi “cede”, un altro “spaccia”, come ha ricordato Antonella Soldo ieri in un tweet; e ancora: Morisi ha in casa “droga liquida”, probabilmente la stessa sostanza chiamata da e per altri “droga dello stupro”, locuzione che annette allo spaccio la dimensione della violenza e allude a un ulteriore reato; Morisi fa del male soprattutto a sé, va aiutato, mentre se si tratta di un tossicodipendente medio (o di un consumatore segnalato) la prassi prevede citofonate a favore di telecamera e anatemi pubblici dati in pasto alla Bestia.
Agli amici l’aiuto incondizionato, gli altri in galera.
Un metodo, questo, indefinibile ma rigoroso, che dà delle misure nette: i poveri e gli emarginati dalla società che gravitano nell’orbita tossicodipendenza sono etichettati come criminali, per chi ha delle posizioni di privilegio la vita è invece più semplice anche nelle sventure. Per questo i diritti servono, servono soprattutto agli altri, a chi non ha ‘armi’ a disposizione se non se stesso. Ecco: non tutti hanno un amico ex-Ministro dell’Interno. 

In quegli altri c’era anche chi più aveva bisogno d’aiuto, e che in galera ci è morto.
C’era Stefano Cucchi, ucciso non dalla droga (come più volte ripetuto da Giovanardi) ma per mano di due agenti, che l’allora Ministro Ignazio La Russa si affrettò a difendere con un’estrema dichiarazione di intenti: “Non so nulla ma giuro sull’onorabilità dei Carabinieri”.
La manipolazione del linguaggio l’abbiamo vista con Salvini anche dopo la sentenza di condanna dei due imputati: “Se qualcuno ha sbagliato pagherà” e aggiungeva “questo testimonia che la droga fa male sempre”, a margine di un processo lungo a doloroso a cui forse i se non andavano più aggiunti.

Un capolavoro di adulterazione linguistica che trova però una sponda anche nel giornalismo nostrano: avete mai sentito qualcuno sottolineare sulla stampa la totale insensatezza di quelle parole?

C’era Federico Aldrovandi, ucciso a 18 anni da quattro poliziotti. La stessa ANSA riportava la notizia parlando di ‘scontro con gli agenti’, come se ci fosse fortuità, come se non contasse essere quattro contro uno. Anche in questo caso Giovanardi non risparmiò le offese, al ragazzo così come alla famiglia. Le televisioni e le testate giornalistiche non tutelarono, sul piano squisitamente linguistico, lo Stato di Diritto, contribuendo così a inasprire la contrapposizione tra schieramenti. In realtà, il minimo comune denominatore era ed è soltanto uno: l’abuso di potere.

Potremmo andare avanti a indagare i significati implicati dai significanti fin troppo espliciti, potremmo partire dal caso Uva e arrivare a Carlo Giuliani, bollato come ‘drogato’ (da quell’aggettivo partì la giustificazione di tutti gli abusi commessi a Genova durante il G8). 

Dei delitti e delle pene: di ogni nome ricordato traspare in controluce solo la pena, e una necessità di aiuto.
Non nel caso di Luca Morisi, un ragazzo che può contare sulla sua posizione di privilegio, sulle tutele giornalistiche e sulla memoria a breve termine tipica del ventunesimo secolo.

I problemi risiedono in questo, e diventano domande laceranti lasciate senza risposta: perché l’amore per il diritto vacilla a seconda della posizione sociale? Perché chi non ha ‘carte buone’ da spendere è un tossico, mentre chi ha alle spalle un sostegno importante ne esce comunque a testa alta? Perché l’Italia continua ad essere un paese in cui l’ipocrisia, anche giornalistica, vince sullo Stato di Diritto?

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