Il sottile filo rosso

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Di Rafaella Stacciarini

«Alcuni contenuti del Ddl Zan incidono negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa e violano il Concordato».

Ecco il passaggio chiave della nota verbale consegnata dal cardinale Paul Richard Gallagher all’Ambasciata italiana presso la Santa Sede e trapelata a stralci nei giorni scorsi sulle maggiori testate giornalistiche.

È curioso che sia proprio il Vaticano a parlare di presunte libertà violate, nello specifico di un’ingerenza che lederebbe la sovranità e la separazione degli ordini tra stato  e Chiesa – garantite dall’articolo 7 della Costituzione. Ovviamente, secondo la Santa Sede, a rimetterci sarebbe quest’ultima.

Vero è che diritti civili e libertà individuali sono da sempre nel mirino delle gerarchie cattoliche – molto meno tra i cattolici di base –, basti pensare alle posizioni espresse nel corso del tempo su aborto, divorzio, eutanasia e, last but not least, sulla legalizzazione delle droghe leggere («La lotta alla droga non si combatte legalizzandone l’uso», Mons. Bernardito Auza, aprile 2016. E ancora: «La droga è un male che minaccia la libertà e la dignità di agire di ogni persona», Card. Turkson, novembre 2018)

Compare però, stavolta, un sostanziale elemento di novità: il metodo.

Se negli anni ‘70 per divorzio e aborto lo strumento privilegiato di opposizione e di ricerca del consenso popolare fu la chiamata alle piazze e al popolo cattolico (Paolo VI su tutti), oggi contro il Ddl Zan assistiamo a uno stravolgimento radicale della strategia

Fino ai tempi del cardinale Ruini, la Chiesa cercava di far valere le proprie posizioni evocando le masse dei credenti, si muoveva dunque in una dimensione pubblica e collettiva. Adesso, invece, sembrerebbe che preferisca seguire le vie diplomatiche, meno esposte, più sotterranee.
Il motivo è semplice: le masse cattoliche di cui sopra sembrano ormai essere lontanissime dalle lotte ideologiche degli alti prelati che (in teoria) li rappresenterebbero.

Basta osservare la storia: ogni volta che la Chiesa ha provato a mettersi di traverso sulla strada dei diritti civili e individuali ha perso.

I referendum sul divorzio e sull’aborto sono passati grazie anche al voto di tanti cattolici che in nessun modo si sentivano rappresentati dalle posizioni della Santa Sede. La società civile, d’altra parte, è sempre un passo avanti rispetto alla classe politica.
Per quanto a volte possa sembrarci improbabile, l’Italia è un paese maturo e gli italiani sanno bene cosa scegliere quando si parla di diritti. 

Questo dettaglio spesso sfugge ai rappresentanti delle varie forze politiche italiane, ma è stato di sicuro capito in Vaticano. È così che si spiega la mossa della nota verbale, inoltrata in maniera riservata e lontano dai riflettori, resa pubblica soltanto grazie al lavoro giornalistico del Corriere della Sera che ne ha dato puntualmente notizia.

Nel merito la risposta non può che essere una: il parlamento è sovrano, e questa entrata a gamba tesa della Santa Sede risulta quanto mai inopportuna. Bisogna peraltro sottolineare come il tentativo vaticano vada contro ogni prassi democratica: siamo in presenza della rappresentanza diplomatica di un Paese che chiede al governo di un altro Paese di intervenire sul parlamento perché il dibattito su una norma potrebbe violare degli accordi internazionali.
Ora, a parte che ancora non c’è una legge sull’omolesbotransfobia, non sta né in cielo né in terra (è il caso di dirlo) che qualcuno provi a influenzare il dibattito parlamentare. Per il principio della separazione dei poteri, infatti, non potrebbe farlo nemmeno il governo italiano

In ogni caso, c’è del positivo anche nel pastrocchio: l’intervento della Santa Sede servirà ad accendere finalmente il dibattito intorno al Ddl Zan e alle istanze che vuole rappresentare.

Questo è senza dubbio un elemento da accogliere con soddisfazione, anche perché, lo sappiamo bene, il dibattito sui diritti civili vive di fiammate. E la discussione sull’omolesbotransfobia potrà anche evolversi in una discussione più generale.

C’è un filo rosso, infatti, che collega le battaglie per i diritti LGBTQI+ a quelle per aborto, eutanasia e decriminalizzione dell’uso di sostanze, lotte combattute su terreni differenti ma tutte radicate a un principio fondamentale e irriducibile: il nostro corpo ci appartiene.

Lo stesso corpo che, da strumento di conoscenza e liberazione, nel dibattito contemporaneo spesso diventa il campo di contesa tra ideologie politiche e culturali in competizione

Sorveglianza e repressione, nondimeno lo stigma morale, sono le armi utilizzate per cercare di affossare questi diritti, obiezioni da rispedire al mittente tanto quanto le ingerenze delle gerarchie cattoliche.

La battaglia non può che continuare. Per una società matura, consapevole e libera, libera di scegliere chi amare e come disporre del proprio corpo.

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