C’è un elefante nella stanza, nell’ambito del sempre più attuale dibattito sulla crisi climatica: si chiama proibizionismo, e il suo impatto, finora, è stato ampiamente sottostimato.
È questo il monito lanciato da International Coalition on Drug Policy Reform and Environmental Justice mediante il suo ultimo report, intitolato The missing link for climate justice: drug policy.
Nonostante le politiche finora messe in campo da istituzioni, associazioni e ONG, la questione della sostenibilità ambientale non ha ancora affrontato a sufficienza il tema del sistema globale di proibizione delle droghe, la cui conseguente creazione di un’economia sommersa ed estremamente potente costituisce la base di processi in grado di minare il progresso ambientale.
Non a caso, alcune fra le rotte commerciali più battute, nell’ambito del mercato delle sostanze illecite, sono rappresentate proprio dalle latitudini equatoriali relative a sud-est asiatico e America Latina.
La prima sezione dello studio analizza tre argomentazioni di cardinale importanza: la dislocazione di produzione e traffico di sostanze in direzione delle principali frontiere ambientali, i finanziamenti ad attività nocive per l’ambiente stanziati con fondi derivati dal mercato nero, la destabilizzazione sociale in funzione deterrente rispetto al consolidamento climatico.
Il proibizionismo ha infatti creato un regime economico in cui materie prime estremamente redditizie sono prodotte e trafficate in alcune delle aree di maggior biodiversità del pianeta. Ad ogni modo, ritenere che le colture illegali siano in sé responsabili della perdita di biodiversità risulterebbe eccessivamente semplicistico: il volume di zone zone disboscate in ragione della produzione di droghe risulta infatti decisamente inferiore rispetto a quelle erose dalla produzione di materie prime.
La problematica è, piuttosto, il modo in cui le strategie proibizioniste spingono a situare le colture, nonché le successive eradicazioni, in aree di particolare ricchezza ambientale.
Il discorso è valido anche per quel che riguarda il traffico: la ricerca di luoghi remoti, finalizzata alla messa in sicurezza delle operazioni dei trafficanti, segue di pari passo la criminalizzazione di questi ultimi.
Bisogna sempre tenere a mente, inoltre, che il mercato delle droghe è caratterizzato da evidenti disuguaglianze, all’insegna di un sistema piramidale responsabile di povertà e marginalizzazione sociale. Le conseguenze, come l’incarcerazione e l’eradicazione delle colture, le quali in molti casi fungono da vitale mezzo di sussistenza vitale, si ripercuotono in maniera molto più significativa sui ceti sociali più disagiati.
I considerevoli introiti economici provenienti dal mercato nero, in secondo luogo, consentono il finanziamento di attività altresì dannose, come la militarizzazione dei territori controllati dai narcos e la creazione di percorsi commerciali lungo le zone di frontiera.
I leader delle organizzazioni criminali, infatti, in molti casi sono ricchi proprietari terrieri o personalità di grande influenza sotto il profilo politico. In quest’ottica, il traffico di droghe garantisce la possibilità di investire in molteplici settori, tanto legali quanto illegali, diversificando le operazioni. La connessione tra mercato nero ed estrazioni minerarie illegali, che da quasi quarant’anni colpiscono la foresta amazzonica brasiliana, si pone come uno degli esempi più evidenti di tale meccanismo.
Gli interessi economici vincolati al regime proibizionista, infine, generano violenza e corruzione, costituendo un elemento di ostruzione alle azioni in favore dell’ambiente.
Un dato su tutti: secondo Global Witness, il 75% degli omicidi ai danni di attivisti ambientali sono da porre in collegamento con settori economici illegali.
L’attuazione delle politiche antidroga comporta inoltre esosi sforzi economici, stimati attorno ai 100 miliardi di dollari annui, praticamente equivalenti ai fondi destinati a operazioni di aiuto umanitario, finanziate per 130 miliardi di dollari.
Nel documento sono indicati sette fattori di destabilizzazione sociale ad opera della War on Drugs:
– la correlazione tra divieto e aumento del prezzo di mercato delle sostanze
– la creazione di contesti criminali
– l’influenza sulle politiche pubbliche, come nel caso dei sistemi legali, burocratici e militari
– arricchimento delle organizzazioni criminali
– l’aumento di fenomeni di corruzione
– l’indebolimento degli organi ufficiali di governance
– il deterioramento dei legami sociali e comunitari
Le tre convenzioni internazionali poste a controllo delle droghe illegali, rispettivamente risalenti al 1961, al 1971, e al 1988, hanno contribuito all’escalation dei processi appena descritti.
Allo stesso modo, sono sette le aree di azione in contrasto al cambiamento climatico messe a rischio dal regime proibizionista:
– la strategia di difesa delle aree protette
– la tutela delle aree abitate da popolazioni indigene
– la fornitura sostenibile di materie prime
– le campagne di sensibilizzazione sull’impatto degli allevamenti industriali
– il miglioramento del sistema di monitoraggio delle foreste
– la garanzia di condizioni di vita accettabili per i coltivatori appartenenti a specifici gruppi etnici
– il rafforzamento delle politiche ambientali
La seconda parte del report affronta una domanda fondamentale: perché il movimento ambientalista fatica ad agire nei confronti del problema, e, in alcuni casi, persino a riconoscerlo come tale?
Nonostante i cartelli del narcotraffico e, in misura minore, le stesse istituzioni, traggano profitto da attività illegali, raramente il sistema criminale viene menzionato in sede di analisi. Per esempio, la succitata Global Witness non include le organizzazioni criminali tra gli elementi analitici di base.
Su questo, il documento si esprime piuttosto esplicitamente: “Il rifiuto di riconoscere questo collegamento rischia di perpetuare il danno, poiché oscura deliberatamente le cause più significative della violenza contro i difensori dell’ambiente, distogliendo l’attenzione dalle aree che necessitano di intervento più urgente.”
La risposta all’emergenza viene perciò inquadrata non in una militarizzazione del territorio sempre più invasiva, quanto piuttosto in un processo di progressiva riduzione dell’impostazione proibizionista veicolato da una definitiva presa di coscienza dei termini della questione.
Uno di essi è lo stigma, elemento che ha contraddistinto il dibattito sulle droghe, rendendolo un tema spesso considerato sgradevole, dunque affidato alla demonizzazione dei vari attori coinvolti nell’ambito del mercato illegale.
La terza e la quarta sezione sono dedicate alle opportunità create da possibili riforme e regimi di regolamentazione legale: partendo dai primi tentativi di legalizzazione della Cannabis, arrivando al recente riconoscimento, da parte dell’ONU, della necessità di porre fine alla War on Drugs in nome della tutela della salute pubblica, negli ultimi anni si è assistito a un significativo cambio di paradigma nel riconoscimento dei fallimenti storici del proibizionismo, all’insegna di un approccio più pragmatico.
Sebbene la transizione verso un sistema di legalità ponga indubbiamente questioni di complessa soluzione, la regolamentazione si propone come unica risposta razionale al bisogno di giustizia sociale, benessere collettivo e sviluppo sostenibile causato da oltre sessant’anni di politiche repressive.
Allo stesso tempo, la realizzazione di una giustizia climatica deve comportare il monitoraggio delle attività illecite, alla stregua di quanto accade per ciò che riguarda estrazione e produzione di materie prime: un’analisi basata esclusivamente sui sistemi economici regolamentati rivelerebbe infatti difetti di parzialità e incompletezza.
La riforma delle politiche sulle droghe non è, quindi, una componente rilevante per la giustizia climatica.
Essa è parte integrante della soluzione.