Il 19 Aprile non rappresenta solamente la vigilia della giornata mondiale dedicata alla Cannabis. Non il 19 Aprile 1993, almeno.
Fu quella la prima e ultima volta, infatti, in cui la popolazione italiana fu chiamata a esprimersi in merito alle politiche nazionali sulle droghe.
Dall’arresto di Mario Chiesa, che aveva aperto la stagione di Tangentopoli determinando la morte della Prima Repubblica, erano passati poco più di quattordici mesi. Le stragi di Capaci e via d’Amelio prospettavano per il futuro nubi molto più oscure di quelle causate dal fumo delle bombe.
La latitanza di Totò Riina era terminata dopo ventiquattro anni, la banda della Uno Bianca imperversava tra Marche ed Emilia-Romagna, Carlo Lucarelli pubblicava il suo primo giallo, il Milan di un Berlusconi non ancora sceso in campo, di lì a qualche mese, avrebbe disputato la prima di tre finali di Champions League consecutive.
Dall’estero, fra le varie notizie da segnalare, la prima elezione di Bill Clinton, la fine dell’apartheid e la vittoria di Mandela del premio Nobel per la pace, l’esordio discografico dei Radiohead, l’entrata in vigore del trattato di Maastricht.
“Scriva che sono stati i preti!”
La battuta, pronunciata da don Vinicio Albanesi all’indomani del referendum, nascondeva un fondo di verità.
Alla vigilia del voto, gli schieramenti politici erano ben definiti.
Dc e Msi a costituire la roccaforte del no, il sì di Pds, Partito Radicale e Rifondazione Comunista, e, in mezzo, un nugolo di partiti minori e gruppi parlamentari impegnati a ribadire libertà di coscienza e di voto.
Fu in quel momento che il ruolo di comunità e associazioni divenne a suo modo decisivo: il Cnca, all’epoca composto da 97 comunità di accoglienza, con il suo esplicito sostegno alla riforma si rivelò una delle forze trainanti dell’opinione pubblica.
Pare che a convincere Mario Segni, il cui assenso risultò fondamentale, fu proprio Don Ciotti. Il quale, ad ogni modo, non perse occasione per ribadire la sua posizione: “L’alta percentuale dei no dimostra che un dibattito è aperto in Italia. Per parte mia dico che se qualcuno tra i vincitori pensa che è aperta la strada della droga legale, noi non siamo d’accordo, perché non esistono scorciatoie che non siano l’educazione al rifiuto della droga”. Parole che, nella loro durezza, resero comunque esplicita la distanza concettuale da una legge, la Iervolino-Vassalli, orientata dall’approccio repressivo nei confronti dei consumatori.
Fra i fatti che precedettero il voto del 18-19 Aprile 1993, ce n’è un altro, troppo spesso dimenticato: nel mese di Gennaio, Amato, all’epoca Presidente del Consiglio, aveva emanato un decreto legge con l’intento di cancellare le sanzioni penali predisposte per i consumatori di sostanze illecite. Il canonico termine di sessanta giorni previsto per la conversione in legge non venne però rispettato, e il decreto finì riversato in una proposta di legge che non vide mai discussione parlamentare.
I sondaggi che precedettero la tornata referendaria indicavano nel quesito antiproibizionista quello caratterizzato dalle maggiori percentuali di incertezza.
L’affluenza risultò del 76,9%, rendendo il referendum sull’abrogazione delle pene per la detenzione a uso personale di droghe il quesito più votato, alle spalle del solo referendum relativo all’introduzione del sistema maggioritario per il Senato.
Non solo: i contorni della vittoria del sì, 55% contro 44%, lasciarono pochi dubbi circa le risposte alla “questione droga” verso cui la società civile si era indirizzata, all’insegna di un approccio che esulasse dall’impostazione criminalizzante assunta fino a quel momento.
Dunque, via il concetto di dose media giornaliera, dentro nuovamente il principio di modica quantità (stabilito dalla legge del 1975), maggiore potere accordato ai giudici, chiamati a esprimersi caso per caso, nonché definitiva conferma del fatto che il consumo di droghe non può essere considerato un crimine.
Ciò che risultò inattuato riguardò la prospettiva di assistere a una revisione organica della Iervolino-Vassalli.
Lacuna normativa che, a distanza di trent’anni, si rende oggi più percepibile che mai.
A rimanere immutata è invece la capacità polarizzante dell’argomento, se è vero come è vero che, fra le prime reazioni, le voci allarmate da un supposto decadimento morale si alternavano senza soluzione di continuità agli auspici di vedere l’Italia come capofila del movimento antiproibizionista continentale.
Un dato è certo: ad oggi, l’Italia resta il solo stato europeo ad aver introdotto cambiamenti alla propria legislazione sulle droghe per via referendaria.
E, allora, torna utile andare a rileggere le motivazioni con le quali, all’epoca, la Corte Costituzionale riconobbe l’ammissibilità del referendum:
“Non vi è dubbio che, in sostanza, le Convenzioni prospettino la facoltà per ogni Stato contraente di prevedere misure diverse dalla sanzione penale per ogni infrazione che presenti un carattere di minor gravità”.
Formula di cui, trent’anni dopo, la stessa Consulta sembra aver perso memoria.